La vite (così come la vita) si regge sulla fiducia. Siamo pronti?
La sola cura conosciuta per la paura e’ la fiducia.
E la fiducia, come l’arte, non viene mai dall’avere tutte le risposte, ma dall’essere aperta a tutte le domande, come scrisse Earl Grey Stevens.
Di domande ne abbiamo tante, oggi più che mai, alla vigilia della Fase 2, della lenta ripartenza del mondo, in particolare del nostro Paese ferito, dopo la violenza dell’emergenza Covid-19. Torneremo mai alla normalità? Che forma avrà la nuova normalità? Avremo di che vivere? Il virus colpirà ancora in modo cosi’ aggressivo? Dovremo tornare a temere per la nostra salute, per la nostra famiglia? Come facciamo ad avere fiducia con tutti questi dubbi nella testa?
In questi giorni ho raccolto la preoccupazione, le ansie, i timori dei miei cari e degli amici che vivono a Bergamo. La città ha una profonda ferita ancora aperta che stenta a rimarginarsi e fa ancora male. Molte persone sono ancora talmente scosse e terrorizzate che non sono ancora uscite di casa, nonostante il nuovo decreto sicurezza lo consenta in maniera più libera. Ci sono figli paralizzati dall’idea di andare a trovare i propri genitori a pochi chilometri di distanza, per paura di essere veicoli di un virus che a Bergamo ha spazzato via in due mesi un’intera generazione di saggi e anziani. Ci sono sorelle e fratelli che continuano a vedersi solo in video chat anche se potrebbero farlo in persona, con le distanze di sicurezza, magari condividendo la gioia di un pranzo o di una cena. C’e’ mia suocera che non se la sente di andare in chiesa ancora, nonostante sia sicuro e consentito. E per lei, cattolica praticante al confine con la santità, e’ un’enorme rinuncia. Non più necessaria, ma perpetrata in nome della paura.
Queste scene non fanno notizia, sui giornali ci finiscono solo le decine di ragazzini che affollano i navigli a Milano, alcuni dei quali senza mascherina. E lo sdegno di tutti i paladini del web che sbraitano contro quei ventenni come se fossero il vero problema. I telegiornali mostrano solo la minoranza che non rispetta le regole, alimentando ancora di più l’ansia di chi, imprigionato nella propria casa, come quegli uccellini in cattività, non si azzarda nemmeno a mettere il becco fuori dalle sbarre, nonostante la finestrella sia aperta e ci sia il via libera per una gioiosa, breve svolazzata nella natura.
Ci vorrà tempo e pazienza per curare questa ferita, lo so, ma credo sia doveroso sforzarsi di non perdere la fiducia. Fiducia nel futuro, negli altri e in noi stessi.
Ho la fortuna di vivere in un Paese, gli Stati Uniti, che mi ha insegnato ad avere più fiducia. L’atteggiamento americano nei confronti delle avversità, dei rischi e’ sempre positivo: ogni cambiamento e’ visto come un’ opportunità, e’ incoraggiato, pur nella consapevolezza che può portare anche conseguenze negative, ma l’errore non solo e’ ammesso, ma incoraggiato. Sapete qual’ e’ l’augurio che si fa spesso qui a una persona che sta per aprire un’attività? “Fail fast”, fallisci presto. Suona una gufata? In realtà il senso e’ che dagli errori si impara di più che da mille lezioni teoriche o proiezioni astratte, quindi ci conviene sbagliare subito e alla svelta per correggere immediatamente la rotta e avere successo.
Per sbagliare pero’ bisogna agire e per agire dobbiamo avere fiducia negli altri e nel futuro.
Tutto si regge sulla fiducia: ogni giorno ci fidiamo del fatto che il sole sorgerà e avremo luce, ci fidiamo del fatto che avremo acqua e cibo, perché ogni ingranaggio del meccanismo ‘società’ funzionerà a dovere, ci fidiamo dei nostri cari che continueranno ad amarci nonostante i nostri difetti e le nostre mancanze. Non abbiamo la certezza scientifica che queste cose accadranno, ma abbiamo fiducia, a tal punto che non le mettiamo nemmeno in questione.
La mancanza di fiducia porta alla paralisi ed e’ questo il rischio che corriamo in questa seconda (e terza) fase dell’emergenza.
Nel vedere tante persone che rinunciano a prendersi delle libertà che ora vengono concesse (come andare a trovare i propri cari), mi fa percepire i segni di una pericolosa mancanza di fiducia. Dobbiamo recuperarla presto per uscire dal pantano in cui siamo finiti. E ancora una volta, come mi piace fare ultimamente in questo diario intimista della nostra quarantena, imparo dalla vite e dalle sue vicissitudini.
Anche lei, la vite, sapete, ha vissuto una grande pandemia che in Europa ha sterminato quasi l’80 per cento dei vigneti alla fine del 1800. Una perdita immane del patrimonio viticolo centenario, alcuni vitigni si sono estinti per sempre, tutto per colpa di un insetto, la fillossera. L’azione distruttiva del parassita ebbe come conseguenza la necessità di ricostruire completamente il patrimonio viticolo del continente, dividendo di fatto la storia del vino e della vite in due periodi, il periodo prefilosserico e quello postfilosserico. Un po’ come noi: la vita pre-covid e post-covid, due epoche cosi’ vicine e cosi’ distanti.
Come e’ ripartita la vite dopo il flagello della fillossera? Attraverso l’aiuto di un’altra specie, la vite americana, che aveva sviluppato un’ immunità radicale all’insetto. Dopo numerosi esperimenti si scoprì che la vite americana poteva essere utilizzata per costruire una pianta con “piede americano” ma apparato vegetativo e riproduttivo europeo.
Intere regioni viticole furono nel tempo ricostruite con le nuove barbatelle ibride: migliaia di specie autoctone erano scomparse per sempre, ma la vita continua e in Europa nasceva così la viticoltura moderna.
Questa operazione si e’ basata largamente sulla fiducia che la natura avrebbe trovato il modo di ripartire sotto una nuova forma, ibrida, ma più forte, più resistente. I viticoltori dell’epoca non potevano sapere se la cosa avrebbe funzionato, se avessero avuto frutti buoni e di qualità dai nuovi impianti, se la vite non si fosse ammalata nuovamente, portando a perdite disastrose di risorse economiche e sforzi imprenditoriali.
Ma si sono fidati di se stessi, della loro intuizione, delle poche evidenze scientifiche, del futuro. E sono ripartiti.
La pianta di vite stessa si e’ ritrovata a doversi adattare a nuove radici (della sua cugina d’ America), fidandosi che dopo l’innesto, avrebbero portato il nutrimento in modo efficiente come le vecchie radici. Proprio come un paziente che subisce un trapianto di cuore e conta sulla fiducia verso questo nuovo organo “estraneo” che può essere la sua salvezza. E che cosa succede se il corpo non si fida del nuovo organo? Lo rigetta, si ammala e soccombe.
Lo stesso siamo chiamati a fare noi, oggi. Costa fatica, e’ psicologicamente pesante, ma dobbiamo fidarci degli altri e credere in un futuro positivo, di nuove sfide, ma anche di nuovi stimoli. Dobbiamo scacciare la paura che ci paralizza e tornare a vivere, rispettosi delle nuove disposizioni, ma liberi dall’ansia, con il sorriso sotto le nostre mascherine e il luccichio negli occhi quando il nostro sguardo incrocerà quello degli altri: perfino a due metri di distanza sentiremo l’energia positiva, non il terrore, non la repulsione, ma la magnetica voglia di tornare insieme.