Di linoleum, zuccheri e linguaggio del vino
Un esercizio mentale che mi piace fare e che è necessario per chi, come me, di mestiere comunica, è quello di mettermi nei panni di chi ascolta. Chi di voi segue le mie vicende enologiche sui social media o sui miei canali di informazione probabilmente è rimasto un po’ confuso nei giorni scorsi per via di una diatriba tecnica condita di attacchi personali, gossip e cattiverie nei miei confronti.
Scavando sotto la montagna di immondizia sotto cui questa “critica tecnica” è stata seppellita vi sarete imbattuti in un articolo “incriminato” postato sul mio blog in inglese ‘The Italian Wine Girl’ riguardo al potenziale di invecchiamento dei vini bianchi italiani che è stato maldestramente tradotto in italiano (credo con Google Translator), decontestualizzato e vilipeso come la peggior eresia che un sommelier possa scrivere sull’argomento.
Parliamone.
Innanzitutto, il contesto. Da sette anni vivo e lavoro negli Stati Uniti con l’obiettivo di promuovere nei modi migliori ed efficaci la cultura del vino italiano. Sono una giornalista professionista e divulgatrice conosciuta come The Italian Wine Girl, nome del mio blog e della mia community online. Prima della pandemia il mio lavoro consisteva (e consiste tuttora anche se in modalità diverse) nell’organizzare e tenere classi, seminari e occasioni di visibilità per regioni vinicole o cantine italiane sul mercato americano. Il mio obiettivo quindi e’ comunicare, veicolare un concetto con il fine di far incuriosire chi legge e avvicinarlo al vino italiano.
Il lettore tipo del mio blog (in lingua inglese) infatti è il consumatore appassionato anglofono in cerca di curiosità, approfondimenti, consigli e informazioni sul vino italiano. È con questo interlocutore in mente che scelgo i temi da affrontare e il linguaggio con cui veicolarli.
Nel caso dei vini bianchi italiani con potenzialità di invecchiamento l’intento dell’articolo era far capire al consumatore americano il grande valore di alcuni nostri vini bianchi che nulla hanno da invidiare ai blasonati bianchi della Bourgogne in termini di complessità e longevità. Anche l’Italia può offrire grandi vini bianchi da collezione e spesso con un rapporto qualità prezzo migliore.
Negli Stati Uniti la grande maggioranza di consumatori ha un’idea ben precisa (e spesso distorta) dei bianchi italiani, basti pensare che il più venduto e conosciuto, tra i vini fermi, è il Pinot Grigio. In generale i bianchi italiani, tra i consumatori medi, sono considerati vini semplici (nell’articolo li chiamo mono-dimensionali), spesso definiti “troppo secchi” o “troppo acidi” o addirittura di cui si lamenta un “finale amaro”. Queste espressioni sono figlie di un’esperienza sensoriale ovviamente molto limitata dei vini bianchi italiani, ma che rispecchia la realtà quotidiana del mio lettore medio. Gli americani si sono avvicinati al mondo del vino solo da qualche decade: inizialmente, parliamo di oltre 50 anni fa, il vino bianco italiano più diffuso era il Moscato (e in parte ancora lo è), quindi un vino poco alcolico, dolciastro e di bassa acidità. Poi negli anni Settanta il Pinot Grigio si è imposto sul mercato come vino fresco, immediato, semplice e da consumare giovane. Sto sintetizzando per arrivare al punto, ma su questi temi c’è molto da dire, li approfondisco nel mio podcast che trovate qui.
Oggi ovviamente sul mercato ci sono molti altri esempi di vini bianchi italiani oltre al moscato e al pinot grigio, ma lottare contro questo preconcetto (ovvero che “i vini bianchi italiani fermi sono semplici, aciduli e “asciutti”) è impresa tutt’altro che facile.
Nel mio articolo descrivo questo preconcetto per arrivare a dire al lettore che il bilanciamento di acidità e zuccheri è fondamentale (riferendomi alla loro percezione sensoriale dei vini bianchi) e che quindi vini considerati spesso troppo acidi o asciutti da giovani, possono, con l’affinamento, sviluppare la complessità dei famosi bianchi di Borgogna. Detto in maniera semplice: date una chance ad alcuni vini italiani che vi sembrano spigolosi oggi, ma che saranno capolavori tra qualche anno.
Vediamo però esattamente il passaggio “incriminato”:
It happens often that youthful expressions of Italian whites can mask their aging potential. The ageability of white wine is largely dependent on acid and sugar. In their youth, age-worthy white wines will have abundance of acid and an absence of sugar. That acid is so much predominant that not a whole lot else is going on: a lack of complexity, one-dimensional wines.
What also adds to the general problem of youthful wine is that most Italian varieties and wines have a quite bitter finish, so the acidity on top of bitterness makes for a pretty brutal wine, especially if you’re not used to the somm-geek stuff. When you add age and consequently oxidation, those elements balance out and release ethereal flavors and smells. Think about flint and Riesling or scents of linoleum in some aged Burgundy for example.
Chi ha criticato questo passaggio contesta che sia erroneo parlare dell’importanza del bilanciamento tra zuccheri e acidi nell’invecchiamento dei vini bianchi. È evidente al contrario come, inserito nel contesto che ho appena descritto, il bilanciamento tra acidità e presenza o assenza di zuccheri residui faccia la differenza in termini di esperienza di degustazione per il consumatore, ma anche tecnicamente per le trasformazioni chimiche che avverranno con l’ossidazione e l’invecchiamento creando (o non) l’armonia e l’equilibrio necessari per rendere il profilo aromatico piacevole e assestato nel tempo.
In particolare “non tutti gli zuccheri presenti nella polpa dell’uva interessano il processo della fermentazione alcolica. Alcuni di questi – detti zuccheri infermentescibili – non sono infatti convertiti in alcol e anidride carbonica dai lieviti, lasciando quindi al vino una certa “dolcezza”. Questa dolcezza, prodotta dai cosiddetti zuccheri residui, non sempre è percettibile all’assaggio, sia perché equilibrati da altre sostanze, sia perché presenti in quantità trascurabili e tali da non superare il livello della soglia di percettibilità. In alcuni casi, la fermentazione è volutamente interrotta, così da non consentire al lievito di completare il proprio lavoro, lasciando parte degli zuccheri fermentescibili nel vino che, anche in questo caso, costituiranno la frazione degli zuccheri residui e la sensazione organolettica della dolcezza”*
E ancora:
“Lo zucchero contribuisce principalmente con il sapore della dolcezza – non c’è dubbio – tuttavia il suo ruolo nel quadro complessivo del gusto di un vino è decisamente più complesso. Lo zucchero – e più precisamente, la dolcezza – svolge un ruolo fondamentale per l’equilibrio gustativo di diversi elementi, per contro, egli stesso necessita di essere propriamente equilibrato così da non risultare eccessivo. La giusta dolcezza, nel senso di equilibrata, conferisce infatti al vino una rara dimensione “nobile” e “aristocratica”, mentre lo squilibrio per eccesso, rende un vino totalmente sgraziato, stanco e perfino stucchevole.
Fra tutte le sostanze presenti nel vino, gli zuccheri stabiliscono una particolare relazione di equilibrio con le sostanze acide. L’acidità è infatti la primaria qualità organolettica capace di contribuire efficacemente all’equilibrio della dolcezza. Per completezza, l’azione di equilibrio svolta da una sostanza nei confronti di un’altra, non è mai riferita all’alterazione della quantità dei singoli elementi presenti nel vino. Per equilibrio, si intende l’azione di contrasto sensoriale che ha come effetto, non la diminuzione della quantità di una determinata sostanza, ma l’alterazione della sua percettibilità, rendendo lo stimolo equilibrato e armonico in funzione di tutti gli altri. Un ottimo esempio è offerto dal succo di limone. Questa sostanza, notoriamente dal gusto acido e aspro, trova un ottimo equilibrio gustativo con l’aggiunta di una sostanza dal gusto dolce. Con l’aggiunta di zucchero, la quantità di sostanze acide non diminuisce, tuttavia lo stimolo gustativo è reso più tollerabile, cioè equilibrato, dalla dolcezza”.
Questo per spiegare che cosa sta dietro a quelle tre frasi decontestualizzate e prese di mira nel mio articolo in inglese: innanzitutto un contesto americano di consumo e di percezione dei vini bianchi italiani molto diverso dal nostro e, secondariamente, una spiegazione tecnica condensata in poche righe per non ammorbare i lettori e gli appassionati di vino con una lunga e complessa disamina.
Purtroppo, spesso i paladini del tecnicismo, arroccati dietro un linguaggio complicato, da accademia e vecchio, arrecano indirettamente un enorme danno ai nostri produttori, viticoltori e imprenditori del vino che di tutto hanno bisogno (soprattutto in questo momento di stallo dei mercati) tranne che di intimidire i consumatori e di allontanarli dal mondo snob del vino. Trovare un equilibrio tra tecnicismo e giusta comunicazione è la missione a cui siamo chiamati oggi, soprattutto utilizzando strumenti nuovi come i social media. È questo il mio lavoro di ambasciatrice del vino italiano, anche e soprattutto un lavoro di mediazione culturale.
Con ciò continuo a credere che ogni critica sia sacrosanta e preziosa, ma vada comunque sempre contestualizzata. Sarei stata ben felice di avviare un confronto costruttivo con la controparte, soprattutto perché ritengo che noi esperti e sommelier abbiamo il dovere di trovare sempre il modo più rispettoso ed efficace possibile per comunicare il vino.
Abbiamo l’onore di raccontare storie di uomini e donne meravigliosi che fanno grande il nostro Paese nel mondo, abbiamo il privilegio di riferire di sapori, profumi, emozioni e ricordi, ma troppo spesso anziché lavorare per farlo nel modo più democratico e inclusivo possibile, molti professionisti agiscono con l’intento di ostentare il proprio vocabolario tecnico o il pretenzioso “saperne di più”, che magari è reale, ma perde ogni autorevolezza dietro a un linguaggio aggressivo e di esclusione.
Ah, prima di chiudere, dimenticavo il grande protagonista dell’indignazione collettiva: il sentore di linoleum!
“Impossibile sentire il linoleum in un bianco della Borgogna”, vergogna! aggiungo io per fare rima.
Il linoleum è un sentore che viene indicato tra i cosiddetti “eterei” che si sviluppano con l’invecchiamento, soprattutto dei vini bianchi e può contribuire alla complessità del bouquet aromatico di un bianco invecchiato. Negli Usa, come in tante altre parti del mondo, c’è molta flessibilità nel riferirsi a certi profumi e odori piuttosto che a quelli canonici insegnati nelle scuole da sommelier, soprattutto per il fatto che ognuno di noi ha esperienze diverse del mondo, è cresciuto con una memoria olfattiva unica e culturalmente differente. Anziché dire “gomma”, “rubber”, chiamare in causa il linoleum significa far riferimento a quella zaffata di gomma consumata che ti assale quando metti piede nella palestra di una scuola media, per esempio. È una memoria che molti possono facilmente richiamare e capire, io per prima. È un’immagine olfattiva comune per riferirsi a una componente chimica che si sviluppa con il tempo e che Carlo Ferretti ricercatore scientifico di geologia e chimica del vino, dopo aver letto la diatriba feroce sui social, mi ha spiegato così: “Nel vino sono naturalmente presenti sostanze volatili che appartengono a determinate famiglie chimiche (acidi, alcoli, aldeidi, chetoni, esteri, terpeni) che ossidandosi vengono percepite all’olfatto e associate a odori conosciuti. Il linoleum emette compositi organici volatili (VOC), prevalentemente aldeidi alifatiche od olefiniche, oltre ad acidi alifatici. Sono basi molecolari talvolta presenti anche nei vini e definiscono, in entrambi, la loro composizione aromatica nella sua complessità. Tanto di cappello ai nasi fini capaci di riconoscere e descrivere con precisione le emozioni che vengono dal bouquet aromatico dei vini.”
Non abbiate paura quindi di lasciare libera la vostra immaginazione e di ravvisare nel vostro bicchiere qualche ricordo, un’emozione del passato o un sentore dell’infanzia, è il bello del vino, che è tutto tranne che una bevanda.
*estratto da DiWineTaste, Cultura e Informazione Enologica, pubblicazione di Antonello Biancalana