Vitigni resistenti: sono il futuro della viticoltura?
Le varietà piwi cosiddette resistenti sono sempre più oggetto di studio e di sperimentazioni. Quest’anno per la prima volta un vino da vitigni piwi ha conquistato i Tre bicchieri del Gambero Rosso: si tratta di “Vin de la Neu” 2020 da uve Johanniter di Nicola Biasi, l’enologo che ha scelto di dedicare la sua intera produzione a questa nuova tipologia di varietà. Nicola Biasi è anche il promotore di una rete di imprese “Resistenti Nicola Biasi” che riunisce otto aziende che si sono concentrate sulla produzione di vini di grande qualità utilizzando uve PIWI.
Ma partiamo dalle basi: che cosa sono e perché si chiamano piwi?
PIWI è un acronimo che viene dal tedesco pilzwiderstandfähig che significa “viti resistenti ai funghi”, oggi è un marchio registrato dall’associazione svizzera Piwi International (dalla quale sono tratte le informazioni di questo articolo).
I vitigni PIWI hanno un’elevata resistenza alle malattie fungine e consentono quindi una significativa riduzione dell’uso di pesticidi. Pertanto, questi vitigni robusti e innovativi rappresentano una valida aggiunta ai vitigni tradizionali sia in regime biologico o biodinamico sia in considerazione dei cambiamenti climatici in atto.
I vitigni PIWI sono incroci tra i generi Vitis, per cui si combinano le caratteristiche eccezionali, la resilienza e le qualità del vino. L’allevamento e la selezione mirati creano vitigni innovativi che consentono di rendere la viticoltura più sostenibile e di affrontare le sfide future in vigna. Tutti i vitigni PIWI attualmente approvati per la viticoltura sono realizzati con il metodo classico di allevamento della vite. Non sono quindi come erroneamente si pensa “creati in laboratorio”, ma frutto di prove e innesti in vigna.
Le ricerche internazionali su queste varietà risalgono all’800 ma sono state sviluppate piante in grado di produrre vini di qualità solo negli ultimi trent’anni in Svizzera, Germania e Francia.
In Italia una svolta significativa si è avuta tra il 2013 e il 2015 quando parecchie di queste varietà, dopo aver superato i test organolettici e ottenuto il requisito di “interesse agro-enologico”, sono state iscritte al Registro Nazionale delle Varietà di Vite e pertanto possono essere da allora vinificate e commercializzate (con la limitazione di non essere utilizzabili per i vini a Denominazione di Origine).
A quasi 10 anni di distanza il primo vino piwi ha ottenuto il massimo riconoscimento da parte di una guida nazionale, quella del Gambero Rosso, ci chiediamo quindi:
Si può bere quindi bene anche piwi? Coltivare vitigni di fatto creati dall’uomo vuol dire in qualche modo perdere parte delle nostre radici enoiche? Ne parliamo con Erika Pedrini della cantina Pravis che è stata tra i pionieri della sperimentazione piwi iniziando più di vent’anni fa dalla collaborazione esclusiva con l’università di Freiburg, di cui Pravis è stata succursale italiana per la ricerca sui vitigni resistenti.
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