Brand Italia: una denominazione nazionale può essere il futuro sui mercati esteri?
Che l’Italia sia un brand è fuor di dubbio. Ne ho costantemente la riprova nel mio lavoro di promozione dei vini italiani sul mercato americano: ogni volta che si nomina l’Italia gli occhi di chi ascolta si illuminano e piovono commenti positivi e domande su viaggi, cibo, vino e tradizioni. Non è così per la maggior parte dei paesi europei, per esempio.
Pensate che negli States l’aggettivo “Italian” viene appiccicato su qualunque cosa voglia essere elevata di qualità, perfino il cibo per gatti è etichettato “Italian style” or “Tuscan flavor”. C’è chi si indigna, io invece (American style) ci vedo un’opportunità: l’Italia è un brand che rappresenta qualità, genuinità, valori positivi. E noi che comunichiamo il vino italiano, lo ripeto spesso nei corsi di marketing, troppo spesso sottovalutiamo questo fattore.
Durante lo scorso Vinitaly special edition (versione 2021 ridotta di ottobre) ho partecipato a molti dibattiti e convegni organizzati da Wine2wine. Uno di questi mi ha vista tra i relatori sull’importante (e troppo ignorato) tema della disparità di genere che ho affrontato in questo articolo.
Uno dei momenti di confronto che più mi ha colpita e ha fornito lo spunto per questo post di riflessione è stato il dibattito voluto da Ettore Nicoletto, presidente e Ceo di Bertani Domains e fondatore di Vision 2030, una sorta associazione spontanea di professionisti che hanno aderito alla nascita del “Manifesto del vino italiano” con un orizzonte temporale di 10 anni, fino al 2030, e che rappresenta la prima iniziativa in cui manager, imprenditori e professionisti del vino qualificati, che vivono quotidianamente il mercato e l’operatività delle loro aziende, si confrontano apertamente e con “spirito di servizio” sui temi strategici più importanti del settore.
“Vision 2030” conta oggi 6 tavoli aperti: sull’equilibrio domanda-offerta e la gestione del patrimonio produttivo del Paese; sull’identità e posizionamento del vino italiano non solo sui mercati internazionali ma anche su quello interno; sulla comunicazione; sull’enoturismo; sullo sviluppo strategico della struttura dell’industria vinicola, con il tema, ad esempio, dei passaggi generazionali; e sulla formazione delle risorse umane e sviluppo delle loro competenze. A questi si sono aggiunte altre due aree, emerse in maniera trasversale nei diversi tavoli, dedicate alla sostenibilità ed alla digitalizzazione
Tra i relatori del dibattito due esponenti illustri di Vision 2030 Matilde Poggi, presidente della FIVI, associazione dei vignaioli indipendenti e Marcello Lunelli, a capo insieme alla famiglia delle cantine dell’omonimo gruppo, tra cui Ferrari Trento, hanno avuto il coraggio di indicare il famoso elefante nella stanza: la dispersione di risorse tra varie denominazioni e micro zone a discapito di un progetto, di cui si parla da anni ma nessuno porta seriamente avanti, di una comunicazione nazionale del vino, di una denominazione Italia.
Certo, come dice Marcello Lunelli
“bisogna avere il coraggio di rifiutare i finanziamenti che portano 7 camere di commercio di piccole zone limitrofe ad andare separatamente a Pechino per promuoversi a distanza di una settimana, una cosa assurda se pensiamo che accorpando le risorse potrebbero portare avanti attività più incisive e disperdere meno fondi”. Anche la Poggi ha calcato la mano sul concetto di identità nazionale che “troppo spesso viene frammentata in una miriade di denominazioni, le quali non vanno negate o azzerate, ma comunicate in modo coeso sotto un cappello più ampio”.
È solo un assaggio di quanto potete ascoltare nel mio podcast dedicato all’argomento, che contiene anche gli interventi integrali di Lunelli e Poggi durante il convegno a Wine2wine Verona.
Lo trovare qui e su tutte le piattaforme audio: buon ascolto!